mercoledì 2 dicembre 2009

Biografico

Nacqui sotto il presagio di una cattiva stalla (sic). Mio padre si sposò con mia madre, ovviamente, come era usanza allora. Correvano voci per il paese (allora molto più piccolo e certamente ancor più s-pettegolo di adesso) che mio padre non sarebbe stato capace di assumersi il peso di una famiglia e il ruolo che gli competeva; ciò lo ha reso di certo ancora più indispettito e caparbio di carattere. Non per niente la razza annoverava componenti molto duri e decisi. Nel proprio ruolo di padre-marito-padrone, mio nonno, per esempio, non lesinava di bastonare mia nonna, anche per piccole sciocchezzuole. Tenace e risolutivo senza ripensamenti. Orbene, bisogna precisare che il periodo  storico in cui i promessi sposi stavano per fare il loro illecito passo (illecito poiché non si sono assunti l'onere di chiedere il parere ai figli che avrebbero da quel tristo evento dovuti  nascere) era quello in cui stava terminando la seconda guerra mondiale. Fame, miseria e stenti erano all'ordine del giorno. Quindi, mio padre forgiò il suo carattere in base alla nostra razza e alla necessità impellente del periodo storico. Si adattava a fare di tutto. Insomma mio padre cominciò ad essere stimato dai compaesani, stima che conservò.
Mia madre invece aveva un carattere complementare (fallimentare). Cercava di ammansire l'orco di mio padre. Era molto remissiva e cercava poi di sfogare altrimenti la sua repressione. "Ve lasce com'e pezzejende e me ne vajje!..." era la frase terribile che spesso rivolgeva a noi figli; io l'ultimo arrivato a mettere scompiglio nella casa, spaurito, mi ritrovavo così solo, abbandonato a me stesso, accovacciato, davanti casa, malaticcio, sotto il sole stordente, in atteggiamento meditabondo.  «Tu ce n'i cólepe!...» urlava mio padre contro mia madre, quando veniva a constatare che lei si adoprava di soppiatto a risollevare i propri figli dall'incubo del padre-padrone, sia moralmente che materialmente. Mio padre esigeva dai figli il dovuto: «Questa case ce chiame porte e chi ne porte reste fore da porte...» Crudele come la vita. Mi ricordo che abitavamo in quattro (mia madre, mio padre, mio fratello ed io) in un locale di 3,5 x 4 metri,
pressappoco. Non c'era pavimento e non c'era il bagno, ma soltanto un cesso (buco) con la mattonella sopra per i bisogni impellenti. Nel paese, le condutture per l'acqua ancora non c'erano e perciò veniva distribuita tramite gli acquaioli che provvedevano per il suo prelievo e il conseguente trasporto e distribuzione, dietro un modesto compenso. Il matrimonio non sembrava un matrimonio felice. Ma era una condizione normale... anche a
quei tempi.
   Mi rivedo, infante (3 - 4 anni), sopra un carro insieme a mio padre cercando di avere una risposta ai miei perché. «Papà!... ma 'u sole de San Martine è come quille de Portocannune?...» Stizzito, mi rispose malaccio e cercò  di farmi capire la mia idiozia.

    Spesso mi ammalavo, ero fragile di costituzione. All'età di sei anni (facevo la prima elementare) finii in ospedale per quaranta giorni circa, a causa della vaccinazione  scolastica. Ritornato a scuola, il maestro Ciambrone mi chiedeva cosa avessi mai avuto. Non sapevo cosa dirgli, quale fosse la malattia per cui ero stato ricoverato. Meningite, encefalite a quanto pare. Ero sempre introverso; agli occhi altrui avrei dato certamente l'immagine della tristezza personificata. Una ragazza delle elementari, più o meno della mia stessa età, mi chiese una volta (disinvolta) «ma tu perché piangi sempre?... » Io non piangevo mica. Quello era il mio aspetto ordinario: taciturno e triste. Provai amarezza e vergogna... perché era l'unica faccia che avevo e non potevo
mica cambiarla come fosse un vestito.
   Mi ritrovo così alla terza elementare, imbastito con l'abito della prima comunione... suor Matilde tuonava con voce altisonante, minacciando l'inferno per coloro che non hanno timor di Dio. Le minacce non erano solo paterne ma anche divine, adesso. Un aneddoto curioso e divertente mi capitò alla prima confessione. Il confessore mi poneva delle domande: «hai fatto questo?... » Ed io un po' vergognoso, timidamente rispondevo (cercando involontariamente e no di sminuire) «a volte si e a volte no!...» Notavo l'imbarazzo del prete ma non riuscivo a capirne il perché. Cercava di farmi rispondere in maniera più consona e netta: «si o no?» Ma io ad ogni domanda del «Hai fatto questo?...» Rispondevo sempre «A
volte si e a volte no...
» Comunque la prima e l'ultima comunione mi venne acconsentita.

Nessun commento:

Posta un commento

La divergenza sia con te!