sabato 26 gennaio 2013

Sacro patto clientelare per l'interdizione

Promesse... dismesse.
In merito alla sacralità del patto clientelare, onde rilevare quanto radicato sia questo squallido pregiudizio, o dogma che dir si voglia, fornirò come evidenza il bilancio (in rosso) della mia condizione attuale in cui mi sono venuto a trovare proprio a causa di esso.
  1. Circa due anni fà, mi ritrovo a (s)possedere, dopo la morte di mia madre, una casa (praticamente più che inutile per le mie esigenze), della quale non posso vendere nemmeno la mia quota ereditaria. Coincidenza?... o cos'altro?...
  2. 13-14 mesi fà, sono stati mandati ad hoc dei cacciatori per sparare (a scopo intimidatorio, presumo) in direzione della casetta-porcile dove dimoravo... Già prima dell'evento mi era stato intimato di ritornare in paese con le buone...
    Coincidenza?... o cos'altro?...
  3. Un paio di mesi più tardi (a febbraio) mi arriva in campagna il maresciacallo che porta la lieta notizia del tentativo interdittorio, alquanto sospetto, da parte di mia sorella; all'uopo intervennero tre donzellette inviate dal reparto termolese, di cui una psichiatra, che avrebbero dovuto constatare la salute psichica del sottoscritto.
    Coincidenza?... o cos'altro?...
  4. Mi viene proibito, in modo alquanto ambiguo l'installazione di pannelli  fotovoltaici in campagna che non avrebbero comportato nessuna modifica strutturale. Figuriamoci!... uno sgabuzzino!
    Coincidenza?... o cos'altro?...
  5. Considerati i precedenti e prevedendo, di conseguenza, un più che probabile sfratto, decisi di aquistare una roulotte, in modo tale che, comunque andasse a finire la faccenda, un rifugio per il sottoscritto rimaneva comunque, e per di più mobile... Anche questa possibilità mi viene negata, come spiegato altrove.
    Coincidenza?... o cos'altro?...
  6. Sono stato da due giorni buttato fuori dalla casetta-sgabuzzino-porcile di Mario Totaro, il cui utilizzo era per me quasi vitale. In pieno inverno!...
    Coincidenza?... o cos'altro?...
Questo è solo un minimo elenco delle coincendenze, quelle più grossolane, diciamo. Da ciò è facile dedurre che esiste di fatto un processo interdittorio, solo in minima parte dovuto a mia sorella. Non sbaglio certamente a valutare se dico che vi sono implicati: la famiglia (fratello, sorella, cugini, ecc...), l'ambiente e i suoi costituenti più o meno principali (comunali, caserma, gentaglia, ecc...) e soprattutto quel deus ex machina che è la psichiatria. Non male come complotto.

Hanno deciso che io dovessi ritornare alla casa situata in paese. E infatti dopo due anni mi ritrovo adesso proprio nella casa al centro del mio adorato paese... Sono interdetto di fatto e su questo non ci piove. La cosa non finirà qui, dato che sotto sotto covano ancora altri progetti invalidanti ai miei danni (definiti però "per il mio bene"). Questo è certo, è vangelo. Simili  attenzioni ossessive verso il divergente, dimostrano chiaramente che la follia (già di per sé opinabile) è molto comune nella normalità più che nei singoli individui.

Sono perfettamente capace di intendere e di volere, naturalmente, ma senza possibilità di giungere alla realizzazzione di ciò che voglio, in quanto la mia volontà viene negata, bypassata. L'erba voglio cresce solo nel giardino clientelare del re. È geniale, solo la psichiatria poteva concepirla: l'interdizione lo è di fatto, ma non lo è legalmente. Non si può fare appiglio a nessun ricorso o impugnazione, in quanto non vi sono documenti o prove che l'attestino. Questo è un ottimo esempio dell'evidenza del sistema mafioso sociale. La società è mafia, c'è poco da fare.

Come si può vivere quando sai che tutta la tua vita è stata già progettata a tavolino, in barba alla capacità d'intendere e di volere?... Semplicemente: non si vive: si sopravvive. Nino ne morì. Credo per i troppi legami (a filo doppio) affettivi e amicali. Io sopravvivo grazie alla mia a-socialità alla mia a-tuttaggine, alla mia inimicizia... Anche se morire non è il male peggiore, a conti fatti. La cosa inquientante è che il progetto a tavolino di cui sopra sembra essere di durata pluriennale, decennale addiritura, o anche duraturo quanto l'intera vita.

A tale negazione della volontà individuale viene man mano, di pari passo, attuato il  progetto sostitutivo, costituito anche e soprattutto di situazioni concrete create appositamente, ovvero: si crea realtà dal nulla. L'individuo non si troverà quasi mai in una situazione casuale, ma in una situazione-condizione causata ad hoc. Per una persona sensibile ciò può essere a volte letale (vedi Nino), in quanto l'individuo, per quanto buone siano le intenzioni, non riesce più a percepire la realtà (diventata ormai virtuale) se non come progettualità altrui, proiezione persecutoria di sistema nei suoi confronti, e come negazione della propria esperienza soggettiva.  Questa demenza persecutoria la si ritrova dappertutto: in famiglia, nell'ambiente, nelle istituzioni... Insieme al double bind che ne deriva, rappresenta il processo principe per sopprimere "chi è voce al presente": non si vive ma si è vissuti.

venerdì 25 gennaio 2013

Dario un poeta?... divertente?... ah ah ah!...

  Leggo su Primapaginamolise.it : "Dario D'Adderio un poeta divertente". Minchia! Articolo datato... ma sgombriamo il campo da equivoci, per carità!... Vabbè, se ne dicono di tutti i colori; non mi stupisco più di tanto... "Divertente" nel senso di intrattenitore - badate bene - affabulatore, fingitore... Ben lungi dal divertere uscire dal solco... Lo so che tocco un luogo sacro comune, ma io da poeta ho il dovere etico di denunciare un simile abuso di linguaggio, di svelare l'arcano, di rimettere a posto la teminologia fuorviante... dare alle parole il loro giusto peso. Ho l'obbligo di svergognare un tale che si veste (o lo vestono) di panni altrui. A parte i disturbi gastro-intestinali suscitati dalla sola presenza, al solo levissimo sentore in lontananza... Cos'è la poesia, prima di tutto?... Non è un opinione e tutt'altro che divertimento-intrattenimento; semplicemente non è: non appartiene all'esser-ci, al sociale, al mondano, al colloquiale, ecc... Citando il vate per antonomasia (chi meglio di lui potrebbe non-definirla):
Poesia è distacco, lontananza, assenza, separatezza, malattia, delirio, suono, e, soprattutto, urgenza, vita, sofferenza (non necessariamente cristiana). È flusso dell'insofferenza d'esserci. È scontento, anche nei casi più "felici". È risuonar del dire oltre il concetto. È intervallo musicale d'altezza, lirico, in che si dice detta la delusione di quell'altro intervallo (distanza) tra il "pensato" e il riporto sulla pagina. È l'abisso che scinde orale e scritto. Poesia è distacco, lontananza, assenza, separatezza, malattia, delirio, suono, e, soprattutto, urgenza, vita, sofferenza (non necessariamente cristiana). È flusso dell'insofferenza d'esserci. È scontento, anche nei casi più "felici". È risuonar del dire oltre il concetto. È intervallo musicale d'altezza, lirico, in che si dice detta la delusione di quell'altro intervallo (distanza) tra il "pensato" e il riporto sulla pagina. È l'abisso che scinde orale e scritto. (C.B.)
   Ma cosa ha Dario D'Adderio di tutto ciò?... Niente, assolutamente niente. Perciò se ne parla.  La poesia è una cosa (indiscutibile oltre che incomprensibile anche laddove sembra scontata esserlo), Dario è tutt'altro. Non è compreso nella ristretta cerchia dei beneficiari del dono concesso dalle Muse, ovvero coloro che ormai cantano solo parole incomprensibili.
  Io, in quanto non io (assente), sono "degrato a poeta". Che c'entra Dario con la poesia?... La crocetta estetica! ahi ahi!... "Ne sende cchiù senà a cambane d'u matetine!..." Ma dai!... [Se poi si verifica che ognuno pensa positivamente ai cazzi suoi, altro che ricordar passato!]. È un intesa inter nos, troppo troppo accomodante. Questo menestrello menfregante non rischia nulla, dà in pasto alla gente quello che la gente vuole che gli sia dato (un autoinganno reciproco). Non rischia la pelle, come un vero poeta. Uno per tutti, vedi Dino Campana. Oppure, il bistrattato più prossimo a voi (ma lontano anni luce): Carlo Giordano.
   Non è che sia sbagliato o condannabile di per sé, ma non c'entra niente con l'arte e la poesia. L'arte è un salto nel "buio musicale" di che "s'acceca la voce", direbbe C.B.  Il dialetto, l'ho compreso anch'io, allorché mi accinsi a sviluppare analiticamente una grammatica del sanmatinese, senza nessuna smania di insegnare, per carità!, ma con il solo scopo di imparare: allievo di me stesso e basta. Scrivendo in dialetto, va da sé, si viene dirottati verso il popolare, il già detto. Io scrivo, musico, ciò che sente, che vive la gente. La  stessa struttura e storia della forma dialettale, intimamente legata al contenuto (significante prossimo al significato), porta nient'altro che a questo. Questo riporto sulla pagina o sullo spartito potrebbe essere avallato da Machado in modo veramente poetico e illuminante...
Chitarra di taverna che ora suoni
jota, ora petenera,
come gira a chi tocca
le corde impolverate.
Chitarra di taverna dei cammini
non fosti mai, né sarai, poeta.
   Dario fà l'intrattenitore, il divertentitore, da sempre... Per me, figurarsi, è tutt'altro che divertente... Costui celebra un passato morto e sepolto da per sempre, mai stato presente a sé stesso - figuriamoci! Riesuma cadaveri, li imbelleta qua e là, mestiere - questo del becchino - che gli si addice più che quello di poeta a cui è negato decisamente e a cui si nega. La porta è li sempre aperta, ma lui non vi entra e mai vi entrerà, nemmeno in sogno, poiché deve rendere conto al suo sollazzato pubblico, a una coscienza civile e sopratutto alla coscienza tout court, di cui è una mera derivazione; non può sporcarsi di una simile eresia. Questo passato passatista, questa puzza di cadaverina, ahi ahi!... Nessun de vu me scolta!
   Perché regna questo squallore democratico  dove ognuno ha il diritto d'esprimersi e di essere considerato poeta, artista? Anche Mario Totaro! Dio mio! Non c'è più religione! Spero sia un omonimo... Questa si chiama cultura: "l'arte di seppellire i vivi". Appena un tale entra nella smaniosa fregola di esprimersi, di colpo paffete! viene riconosciuto poeta, artista, a furor di popolo. Eliminando così il rischio della poesia. Prevenzione prevenzione, soprattutto!...  Guai ai vivi!...
   Caro Dario, anzi Diario, dato che non posso dialogare, ma solo cantare parole incomprensibili, mi viene detto da chissà cosa chissà come chissà quando chissà che... non so, non so che mi spiegare... Non è mai esistito un dialogo, nemmeno con sé stessi. Il dialetto supera il divario tra dialogo e monolgo, basta a sé stesso, non abbisogna di spiegazioni e di un metalinguaggio atto a definirlo. Ma il dialetto ha fatto il suo corso, non esiste più in quanto è sparita la civiltà contadina che lo teneva desto. Non può esistere nemmeno un rimpianto registrabile che si adegui ad hoc a ciò che non fu mai. La volta in cui finisce nelle mani del menestrello che ne canta le gesta, finisce anche la ventura del dialetto, schivo per sua stessa natura alla rappresentazione.

Arriva sempre il giorno, possibilmente prima del giudizio universale, in cui si deve rendere conto del proprio operato. A chi a cosa?... al nulla, al nada di San Juan de la Cruz. Dario un poeta?... divertente?... Non so se ridere o preoccuparmi, non so, non so... e si trattasse solo di insipienza. Purtroppo, il sapere agonizza nella bocca dell'enfiato spastico deliquio... Vae vivis!... Non contate su di me. Dis-fate questo smemorati di me... e di voi stessi soprattutto che vivete nella commemorativa quotidiana merda dei convenevoli, degli intrallazzi convenuti, dei circoli viziosi e viziati culturali, colonizzati dallo squallore e dalla volontà più becera, ancor più se sotto la dantesca infernata insegna di una bandiera politica, mai sfiorati dal dubbio di dis-fare, disfarsi, soprattutto di sé stessi, della missione civile... essere finalmente dimissionari a tempo pieno, di tutto e di tutti. Sono postumo, differito non sono per voi.

giovedì 24 gennaio 2013

In principio era il verbo "clientelare"

 Il clientelismo ha sempre ragione
(Carlo Giordano)

Da Wikipedia leggiamo che :
La pratica del clientelismo tende a garantire il reciproco interesse o il mutuo vantaggio tra chi fornisce i benefici e chi ne ottiene il contraccambio.
E su questo non ci piove. Tale pratica inoltre 
... è finalizzata spesso, da parte di chi se ne avvantaggia, al mantenimento, con scopi lontani dal bene collettivo e dall'interesse stesso della società civile (ragion per cui assume le forme di un vero malcostume), di un posto di potere assegnato dalla carica pubblica. L'assegnatore può occupare a sua volta la posizione di potere per effetto di simili pratiche indebite, ed è indotto a perpetuare il sistema nominando individui conosciuti che non tenteranno ad indebolirne la posizione.
Certemente questo è un'aspetto prominente del clientelismo... Continuando a leggere su Wikipedia...
 Il clientelismo si distingue dal familismo per l'attuazione di un complesso di favoritismi e protezioni limitatamente ad una cerchia familiare o in qualche modo confinata ai rapporti di parentela.
  Per esperienza so che le cose sono molto più dilatate o almeno diversamente caratterizzate rispetto a queste definizioni sintetiche date da Wikipedia. Lo so per esperienza, poiché quello che subisco io sulla mia pelle è una forma di patto clientelare tra cliente e patrono, tutt'altro che avente scopi lontani dal bene collettivo e dall'interesse stesso della società civile, anzi,  ne è proprio il suo fondamento. Diciamo che il malcostume del clientelismo-familismo poggia su questo patto clientelare-familiare riconosciuto e accettato, senza discussione, da tutti i costituenti del consorzio societario, il quale trova in esso le sue radici più profonde e la coesione soprattutto; detto altrimenti,  risulterebbe inconcepibile una società senza questo patto fondante che per definizione è paritario: cliente e patrono hanno la stessa posisizione e responsabilità nel far rispettare le sue norme codificate dalla consuetudine (sic): una forma di tradizione più o meno locale a cui ci si sente legati come a un dogma che viene percepito, sia dal cliente che dal patrono, come una legge naturale, come un modo istintivo di porsi, di stampo quasi religioso (o anche mafioso, se vogliamo, per un possibile osservatore esterno).
  Il clientelismo e il familismo tout court germinano da questo sistema profondo di patto clientelare e spesso non se ne distinguono, facendone un tutt'uno con esso e, quindi, stabilire se ciò sia o no un bene collettivo o se ne favorisca o meno l'interesse della società civile è, più che altro, ozioso e tautologico, dato che questo deus ex machina affonda le sue radici profonde proprio nell'intera società civile, la quale lo accetta ciecamente e ne accondiscende il volere. Fiat semper voluntas sua. Il sistema clientelare è, a conti fatti, una vera deità, nella fattispecie potremmo ben definirlo nume tutelare. Da ciò si evince il fatto che risulterebbe alquanto incauto e rischioso criticare un siffatto sistema; provocarlo o infierirvi addirittura contro, può diventare letale, imperniato com'è su una (mica poi tanto) dissimulata religiosità. Scherza coi fanti ma lascia stare i santi. Il sacro patto clientelare rappresenta di fatto l'humus primordiale da cui germina qualsiasi forma di sistema mafioso.

domenica 20 gennaio 2013

Il lavoro: "questo diletto cardine del mondo"

Il lavoro è una cosa, il posto di lavoro è un altra cosa.  Per lo stato civico, sociale o Stato con la A maiuscola, quando non si è soggetti al posto di lavoro, si viene etichettati disoccupati. Disoccupati di che? da cosa?... Ci si deve sempre occupare di qualcosa, soprattutto quando questo qualcosa diventa impellente occupandosi di te, allorché si rientra nello stato di dis-grazia per necessaria e inderogabile sopravvivenza. Urge l'occuparsene! Altro che disoccupati! Se poi qualcuno fosse così cortese di occuparsi dei cazzi suoi, invece che di quelli altrui già abbastanza occupati da impellenti esigenze, gioverebbe di certo alla sopravvivenza di coloro a cui si è tanto interessati, "per il loro bene"... Quando  qualcuno s'interessa di te, mostrandosi comprensivo, suadente, dolce, sta pur sicuro, che lo fà per interesse (non per forza economico). Ci si interessa dell'altro, in quanto si è interessati. E qui il termine interesse, usato quasi come sinonimo di altruismo, cade a fagiolo. Qualcuno dice da qualche parte giustamente: "se sapessi che qualcuno stesse arrivando a casa mia con il deliberato proposito di farmi del bene, scapperei a gambe levate". Parole sagge, sante!... "Non cerco comprensione" (C.B.). L'artista, il poeta, ha bisogno come l'aria di "essere trascurato". Altro che incomprensione o la finta comprensione a mo' di infiorettata camicina di forza atta al reinserimento nel sociale del miserabile, a cui si dedicano queste ragnatelose cure particolari. Così facendo lo si in-cura, magari internandolo in una casa di cura. E non c'è verso di far loro capire che noi dell'arte non si fà parte del socialistico (im)mondo dello "squallido posto di lavoro". Meglio la morte. E qui, non gioco con le parole, badate. La morte per noi artisti, da che mondo è mondo, è sempre stata nostra fida compagna, incompatibile con lo squallore lavoristico, che sia sollazzato o meno, poco importa. Ve l'immaginate: un artista disoccupato!... Ma l'artista non è mai disoccupato, fà sempre l'artista, la sua in-attività, a tempo pieno. Figuriamoci poi se indotto in una condizione di sopravvivenza. L'artista non è un (posto di) lavoro, ma il lavoro stesso: il suo "lavorio". Il suo DNA. Sulla scorta di quanto predicato già da Nietzsche, un artista di genio - Carmelo Bene confirma et docet - è un "capolavoro vivente".  "Basta con le opere d'arte! Bisogna diventare dei capolavori... viventi."
La vita fiorisce col lavoro, vecchia verità: ma la vita che è mia non è abbastanza pesante, spicca il volo ed aleggia lontano sopra l'azione, questo diletto cardine del mondo.  (J.A. Rimbaud)
   Che sens'azione, nevvero?... La vita non è pesante quanto il lavoro, perciò vola leggera senza la zavorra di piombo alle caviglie. Volendo disfarsene, questo nodo gordiano lo si risolve "alla macedone", semplicemente tagliandosi i piedi, ormai inutili per il troppo peso-bene sopportato... e si vola... Chacun porte sa coix, moi je porte une plume.
   Non vi è contraddizione. L'enfant de colère non abbandonò mai l'arte, diventò semplicemente un "capolavoro vivente". E poco importa se avesse scelto di continuare a estenuarsi nella produzione di opere che, in quanto tali, sono sempre "residuali". Cosa poteva aggiungere ancora alla sua opera? Un bel niente. Ha scelto il lavoro, o, meglio, ha continuato a fare l'Artista (con la A maiuscola!), a prodursi e farsi produrre dal suo eterno lavorio. Lascia la "palude occidentale" comprendendo appieno con estrema lucidità che l'arte è borghese, occidentale. E non vi è alcuna possibilità di riscatto. Tutto è strutturato e corredato funebramente fin nei minimi particolari onde sfavorire, reprimere, disincentivare lo spirito artistico, soprattutto laddove l'artista viene insignito-imbalsamato meritatocramente,  dato in pasto alla plebaglia, reso pubblico a mo' di vespasiano, posto nel simulacro cimiteriale, o nel fascino mortuario delle museali cere. Che sia famoso, purché non nuoccia. Morto. Per sempre. Questo è ciò che chiamiamo cultura: l'arte di seppellire i vivi. Basta con l'instabilità. Basta con la vita! Due facce della stessa medaglia: prima il miserabile in quanto tale lo si disprezza perché non tollerabile e poi lo si tollera deprezzandolo con le dovute attenzioni. Rimbaud ha capito perfettamente questo meccanismo societario imbalsamatorio le cui basi poggiano sulla norma(lità) e dunque sullo status quo dell'immutabile. Il fatto di avere abbandonato la poesia - lui così giovane, mutevole e indefinibile nella sua fisionomia -  può sembrare apparentemente una sconfitta ma, se vogliamo usare questo fastidioso dualismo, in effetti è stata una vittoria tra le righe su tutti i fronti. Per inciso diciamo che non si può né vincere né perdere, in quanto si è giocati e non si è giocatori. Siamo il gioco, la posta in palio, vinta o persa. Ci siamo persi, ecco tutto. Addio, a mai più ritrovar-ci. Finalmente! "Bellezza straziante del creato!" Nemmeno negli ultimi anni della sua vita, allorché la sua opera cominciò ad avere successo, Rimbaud si redime da questo suo "peccato originale". Il figliol prodigo (un vero prodigio!), l'homme aux semmelles de vent (P. Verlaine) ha sempre evitato accuratamente di rientrare nelle grazie del padre-madrepatria, di rientrare nel rango dei becchini addetti alla cultura. In questo caso, due più due fà veramente quattro. Non è immotivata la sua rinuncia estrema. Rimbaud rifiuta l'arte in quanto espressione tout court e soprattutto aggettivabile come borghese. Sceglie l'Africa o è stato scelto dall'Africa, poco importa il senso della direzione di quest'obbligo dovuto, perché è un luogo abbastanza lontano (lontanissimo sottoterra) e sufficientemente inesplorato, ancora non pienamente predata dalla grassa borghesia occidentale. Rimbaud ha giocato di anticipo allorché ha la visione di questa apertura verso l'Africa (poco importa ripeto se sia reale o meno, se prevedibile) scrivendo nelle sue Illuminations:
 Penso a una Guerra di diritto o di forza, di logica del tutto imprevista
Cosa sia questa Guerra con la G maiuscola, lo spiega sibillinamente nella frase che segue subito dopo:
È semplice come una frase musicale
Ma cosa c'è di più semplice della poesia, più musicale dell'incomprensibile? L'incomprensibile è ciò che si comprende meglio; detto più esaustivamente: l'incomprensibile è ciò che ci comprende... allorché la logica vien meno nella sua imprevedibilità.  Si diventa imprevedibili. E tutto si illumina. Questa è la (sua) Guerra di diritto o di forza, in quanto diritto e forza sono equipollenti, non vivono un rapporto falsato di antagonismo. E qui Rimbaud, geniale, conferma le premesse e le promesse a-scritte nella Lettre du Voyant, diventando veggente, prevedendo nessun futuro ma solo l'eterno imprevedibile presente.
Fanciullo, certi cieli hanno affinato la mia ottica; tutti i caratteri sfumarono la mia fisionomia. Si sommossero i fenomeni. - Ora, l'eterna inflessione dei momenti e l'infinito della matematica mi cacciano per questo mondo ove subisco tutti i successi civili, rispettato dall'infanzia strana e dagli affetti enormi. Penso a una Guerra di diritto o di forza, di logica del tutto imprevista.
   E semplice come una frase musicale.
Rimbaud ormai è sfigurato fisionomicamente, da questo auto-attentato terroristico, perfettamente riuscito, perpetrato ai danni - finalmente! - della sua immagine che non lo riflette più. Tra le miriadi schegge impazzite dello specchio in frantumi sarebbe vano cercare di vedervi frammenti di identità.  Il poeta diventa non più individuabile, canonizzabile, e non certo perché se n'è andato in un'area geografica così lontana chiamata Africa, ma perchè se ne andato via per sempre, da vivo. "Sono veramente dell'oltretomba e niente commissioni".

venerdì 18 gennaio 2013

Corriere & corriere

- Ciao, sono il corriere SDA. Senti io non conosco l'indirizzo della tua casa, se puoi venire tu vicino al distributore di benzina a ritirare il pacco, mi fai un grande piacere.
Ed io fesso fesso risposi alla gentile cortesia... attribuendomi così parte del suo lavoro:
- Certo, per così poco!... 30 metri di distanza, in effetti. Ma anche fossero 10 e, ad ogni modo, qualsiasi distanza non smentirebbe il fatto che io resti comunque trattato da cretino! Il ragazzo sembrava tutt'altro che uno scansafatiche. E la cosa lasciava subodorare qualche faccenduola poco chiara...

Pochi giorni dopo, per un'ennesima spedizione, lo stesso giovane corriere, ancora una volta, sembra trovarsi nella stessa situazione smarrita precedente (poveraccio!), sperduto in questa megalopoli sanmartinese e, ovviamente, non sapendo dove cavolo andare. Infatti, i segnali e i nomi delle strade sono equivoci, i numeri civici sono stati alterati da qualche burlone o farabutto. Via Carmine Troilo.. uhm... è a due passi... a due passi dal luogo dell'appuntamorto stabilito. Ormai sono abituato a non abituarmicisi... Adesso c'è una lieve modifica, tutt'altro che insignificante. Non vicino la benzina, bensì di fronte la Banca il punto morto dell'appuntamento. Guarda caso, proprio dirimpetto alla Banca Adriatica c'è l'ufficio del signor P. che gestisce le autolinee Langiano. È per caso un fortuito caso?... Nient'affatto. Ho intuito da subito (già dalla prima volta che ebbi modo di incontrare, malauguratamente devo dire, questo giovane) che qualcosa non andava, considerata la mia plurima aggravata esperienza passata. Il signor 7x5, capitano congedato, mai destituito dal suo rango (adesso civile) e dal suo compito di mettere in riga, era seriamente preoccupato di non vedermi più elemosinare da lui qualche consiglio o altro. Molto voyoeuristicamente cercava di guardare, lui o chi per lui, l'individuo, il sottoscritto, che si palesava davanti al bancomatt piuttosto comprensibilmente seccato. Uno strano movimento si vedeva dietro la vetrata. Mah!...

Lo stesso fatto si ripete subito dopo, un'altra volta, copione già scritto e riscritto. Sono più che nauseato da quest'annosa situazione, creata però anche da me che accondiscendo sempre a queste ser-vili cortesie. Il giovanotto questa volta, considerata la mia fessaggine, osa anche dirmi in modo apparentemente scollegato dalla situazione: "sai io pensavo che tu eri a lavorare... " Ma se non ci conosciamo nemmeno, ragazzo! Mi conosceva eccome, almeno di fama, tramite il signor 7x5, questo sì, che probabilmente consiglia (obbliga) questo insano pensiero al giovane.


Lo scriverei anche qui su questo blog, come lettera aperta, ciò che avrei da dire al bel signore che gestisce le autolinee, vale a dire di non rompermi più i coglioni. Ma sarebbe tempo perso. Lui ha una missione da compiere nei miei confronti e finché non l'ha militarmente eseguita a dovere, non ha pace, ancor più se avallata dall'assunto circolante nella sua capa tosta, ma vuota, del "Deus le volt".

Divergenza - bilancio

 L'arte come esperienza extra-ordinaria che nel normale diventa ordinaria follia

  Il bilancio di questi miei oltre 10 anni di silenzio, evitando una mera valutazione di carattere valoriale (positivo-negativo) mi dà la possibilità di poter dire di aver espresso una verità lapalissiana eterna.
Giunto è già ’l corso della vita mia,
con tempestoso mar, per fragil barca,
al comun porto, ov’a render si varca
conto e ragion d’ogni opra trista e pia.
Onde l’affettüosa fantasia
che l’arte mi fece idol e monarca
conosco or ben com’era d’error carca
e quel c’a mal suo grado ogn’uom desia...

 Michelangelo Buonarroti

  Eterna, che brutta parola! Sia aggettivata che sostantivata. Ma nella realtà dei fatti, la società, come già sufficientemente spiegato, è rimasta appunto "da per sempre" in un rapporto divergente verso il diverso. Questa è l'eternità del dilemma, insolubile, poicché il sistema per funzionare deve reprimere la divergenza, annullarla, ecc...
  Si tratterebbe della "politica dell'esperienza" che il sistema societario cerca di gestire a proprio vantaggio, annullandone l'unicità del fenomeno, dando a tutti la stessa categoria di appartenenza.
  Un modo per non ri-conoscerci come "esperienza" a dispetto della propaganda marzulliana mezzassonnata di "un modo per capire, per capirsi..."
   Io non posso fare esperienza della tua esperienza. Tu non puoi fare esperienza della mia esperienza. Siamo entrambi persone invisibili. Ogni uomo è invisibile all'altro. Esperienza questa che si è soliti chiamare Anima. L'esperienza come invisibilità dell'uomo per l'uomo è allo stesso tempo più evidente di ogni altra cosa. Solo l'esperienza è evidente. L'esperienza è la sola evidenza [...]
   Anche i fatti diventano fantasie senza modi appropriati di vedere "i fatti". Non abbiamo bisogno di così tante teorie ma piuttosto dell'esperienza che è la fonte della teoria. Noi non restiamo soddisfatti con la fede, nel senso di un'ipotesi ritenuta irrazionalmente non plausibile: chiediamo di fare esperienza dell'"evidenza". Noi vediamo il comportamento delle altre persone, ma non la loro esperienza. Ciò ha portato alcuni a ritenere che la psicologia non ha niente a che fare con l'esperienza dell'altra persona, ma solo con il suo comportamento. Il comportamento dell'altra persona è una delle mie esperienze. Il mio comportamento è un'esperienza dell'altro...
(R.D. Laing, La politica dell'esperienza)
  Intanto si bypassa il problema dell'unicità dell'esperienza confondendola a bella posta con la scorza esteriore del comportamento, credendo in tal modo di dare visibiltà al non visibile, di dare per scontato ciò che non lo è affatto: questo è ciò che si potrebbe definire etichettamento: imbalsamazione da vivi, sepoltura prematura. Si seppelliscono i vivi per riesumare i morti. La vita non è mai scontata se non la sua pena.