domenica 20 gennaio 2013

Il lavoro: "questo diletto cardine del mondo"

Il lavoro è una cosa, il posto di lavoro è un altra cosa.  Per lo stato civico, sociale o Stato con la A maiuscola, quando non si è soggetti al posto di lavoro, si viene etichettati disoccupati. Disoccupati di che? da cosa?... Ci si deve sempre occupare di qualcosa, soprattutto quando questo qualcosa diventa impellente occupandosi di te, allorché si rientra nello stato di dis-grazia per necessaria e inderogabile sopravvivenza. Urge l'occuparsene! Altro che disoccupati! Se poi qualcuno fosse così cortese di occuparsi dei cazzi suoi, invece che di quelli altrui già abbastanza occupati da impellenti esigenze, gioverebbe di certo alla sopravvivenza di coloro a cui si è tanto interessati, "per il loro bene"... Quando  qualcuno s'interessa di te, mostrandosi comprensivo, suadente, dolce, sta pur sicuro, che lo fà per interesse (non per forza economico). Ci si interessa dell'altro, in quanto si è interessati. E qui il termine interesse, usato quasi come sinonimo di altruismo, cade a fagiolo. Qualcuno dice da qualche parte giustamente: "se sapessi che qualcuno stesse arrivando a casa mia con il deliberato proposito di farmi del bene, scapperei a gambe levate". Parole sagge, sante!... "Non cerco comprensione" (C.B.). L'artista, il poeta, ha bisogno come l'aria di "essere trascurato". Altro che incomprensione o la finta comprensione a mo' di infiorettata camicina di forza atta al reinserimento nel sociale del miserabile, a cui si dedicano queste ragnatelose cure particolari. Così facendo lo si in-cura, magari internandolo in una casa di cura. E non c'è verso di far loro capire che noi dell'arte non si fà parte del socialistico (im)mondo dello "squallido posto di lavoro". Meglio la morte. E qui, non gioco con le parole, badate. La morte per noi artisti, da che mondo è mondo, è sempre stata nostra fida compagna, incompatibile con lo squallore lavoristico, che sia sollazzato o meno, poco importa. Ve l'immaginate: un artista disoccupato!... Ma l'artista non è mai disoccupato, fà sempre l'artista, la sua in-attività, a tempo pieno. Figuriamoci poi se indotto in una condizione di sopravvivenza. L'artista non è un (posto di) lavoro, ma il lavoro stesso: il suo "lavorio". Il suo DNA. Sulla scorta di quanto predicato già da Nietzsche, un artista di genio - Carmelo Bene confirma et docet - è un "capolavoro vivente".  "Basta con le opere d'arte! Bisogna diventare dei capolavori... viventi."
La vita fiorisce col lavoro, vecchia verità: ma la vita che è mia non è abbastanza pesante, spicca il volo ed aleggia lontano sopra l'azione, questo diletto cardine del mondo.  (J.A. Rimbaud)
   Che sens'azione, nevvero?... La vita non è pesante quanto il lavoro, perciò vola leggera senza la zavorra di piombo alle caviglie. Volendo disfarsene, questo nodo gordiano lo si risolve "alla macedone", semplicemente tagliandosi i piedi, ormai inutili per il troppo peso-bene sopportato... e si vola... Chacun porte sa coix, moi je porte une plume.
   Non vi è contraddizione. L'enfant de colère non abbandonò mai l'arte, diventò semplicemente un "capolavoro vivente". E poco importa se avesse scelto di continuare a estenuarsi nella produzione di opere che, in quanto tali, sono sempre "residuali". Cosa poteva aggiungere ancora alla sua opera? Un bel niente. Ha scelto il lavoro, o, meglio, ha continuato a fare l'Artista (con la A maiuscola!), a prodursi e farsi produrre dal suo eterno lavorio. Lascia la "palude occidentale" comprendendo appieno con estrema lucidità che l'arte è borghese, occidentale. E non vi è alcuna possibilità di riscatto. Tutto è strutturato e corredato funebramente fin nei minimi particolari onde sfavorire, reprimere, disincentivare lo spirito artistico, soprattutto laddove l'artista viene insignito-imbalsamato meritatocramente,  dato in pasto alla plebaglia, reso pubblico a mo' di vespasiano, posto nel simulacro cimiteriale, o nel fascino mortuario delle museali cere. Che sia famoso, purché non nuoccia. Morto. Per sempre. Questo è ciò che chiamiamo cultura: l'arte di seppellire i vivi. Basta con l'instabilità. Basta con la vita! Due facce della stessa medaglia: prima il miserabile in quanto tale lo si disprezza perché non tollerabile e poi lo si tollera deprezzandolo con le dovute attenzioni. Rimbaud ha capito perfettamente questo meccanismo societario imbalsamatorio le cui basi poggiano sulla norma(lità) e dunque sullo status quo dell'immutabile. Il fatto di avere abbandonato la poesia - lui così giovane, mutevole e indefinibile nella sua fisionomia -  può sembrare apparentemente una sconfitta ma, se vogliamo usare questo fastidioso dualismo, in effetti è stata una vittoria tra le righe su tutti i fronti. Per inciso diciamo che non si può né vincere né perdere, in quanto si è giocati e non si è giocatori. Siamo il gioco, la posta in palio, vinta o persa. Ci siamo persi, ecco tutto. Addio, a mai più ritrovar-ci. Finalmente! "Bellezza straziante del creato!" Nemmeno negli ultimi anni della sua vita, allorché la sua opera cominciò ad avere successo, Rimbaud si redime da questo suo "peccato originale". Il figliol prodigo (un vero prodigio!), l'homme aux semmelles de vent (P. Verlaine) ha sempre evitato accuratamente di rientrare nelle grazie del padre-madrepatria, di rientrare nel rango dei becchini addetti alla cultura. In questo caso, due più due fà veramente quattro. Non è immotivata la sua rinuncia estrema. Rimbaud rifiuta l'arte in quanto espressione tout court e soprattutto aggettivabile come borghese. Sceglie l'Africa o è stato scelto dall'Africa, poco importa il senso della direzione di quest'obbligo dovuto, perché è un luogo abbastanza lontano (lontanissimo sottoterra) e sufficientemente inesplorato, ancora non pienamente predata dalla grassa borghesia occidentale. Rimbaud ha giocato di anticipo allorché ha la visione di questa apertura verso l'Africa (poco importa ripeto se sia reale o meno, se prevedibile) scrivendo nelle sue Illuminations:
 Penso a una Guerra di diritto o di forza, di logica del tutto imprevista
Cosa sia questa Guerra con la G maiuscola, lo spiega sibillinamente nella frase che segue subito dopo:
È semplice come una frase musicale
Ma cosa c'è di più semplice della poesia, più musicale dell'incomprensibile? L'incomprensibile è ciò che si comprende meglio; detto più esaustivamente: l'incomprensibile è ciò che ci comprende... allorché la logica vien meno nella sua imprevedibilità.  Si diventa imprevedibili. E tutto si illumina. Questa è la (sua) Guerra di diritto o di forza, in quanto diritto e forza sono equipollenti, non vivono un rapporto falsato di antagonismo. E qui Rimbaud, geniale, conferma le premesse e le promesse a-scritte nella Lettre du Voyant, diventando veggente, prevedendo nessun futuro ma solo l'eterno imprevedibile presente.
Fanciullo, certi cieli hanno affinato la mia ottica; tutti i caratteri sfumarono la mia fisionomia. Si sommossero i fenomeni. - Ora, l'eterna inflessione dei momenti e l'infinito della matematica mi cacciano per questo mondo ove subisco tutti i successi civili, rispettato dall'infanzia strana e dagli affetti enormi. Penso a una Guerra di diritto o di forza, di logica del tutto imprevista.
   E semplice come una frase musicale.
Rimbaud ormai è sfigurato fisionomicamente, da questo auto-attentato terroristico, perfettamente riuscito, perpetrato ai danni - finalmente! - della sua immagine che non lo riflette più. Tra le miriadi schegge impazzite dello specchio in frantumi sarebbe vano cercare di vedervi frammenti di identità.  Il poeta diventa non più individuabile, canonizzabile, e non certo perché se n'è andato in un'area geografica così lontana chiamata Africa, ma perchè se ne andato via per sempre, da vivo. "Sono veramente dell'oltretomba e niente commissioni".

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