sabato 28 novembre 2009

Reparto


"La psicanalisi e quella malattia mentale di cui ritiene essere la terapia." (Karl Krauss)

SCENE DA UN MANICOMIO

Guardato a vista,
ormai sono nella lista;
sono un teppista, un artista,
non buono da rac-comandare.


Vorrei condurre un buon argomento
ma poi me ne pento: il muro non risponde.


Il filo logico del discorso
è che mi hanno fatto finire in un fosso
poi di corsa al pronto soccorso e recluso
dentro il carcere che chiamiano reparto.
Mi hanno asportato tre quarti della mia volontà,
un quarto già mi mancava.
Adesso però non c’è più.
Dicono che il reparto
è fuori adesso: il controllo
della polizia è più totale. (Carlo Giordano)


   Una delle cose più impressionanti del vecchio reparto psichiatrico termolese è la sua ubiquazione. Stava situato vicino alla sala mortuaria; la sua struttura sembrava come un sotterraneo dove seppellire i morti psichici. Un muro correva lungo le finestre in modo che l’unica possibilità di vedere il mondo e un poco della sua luce veniva resa vana. Appariva (quasi simbolicamente) come l’immagine esatta riflessa allo specchio di ciò può essere (e in effetti è) la psichiatria. Nel girone infernale dei dannati psichici mi muovevo stancamente in cerca di una guida spirituale  che mi desse forza d’animo per proseguire nel cammino. Ho continuato a scoprire orrori che non bisognerebbe mai rivelare ai diavoli addetti ai lavori.

   I dottori passavano la mattina per l’orario delle visite, scambiavano qualche parola con i pazienti e poi parlavano fra loro della terapia da adottare per ogni caso specifico. Essa consisteva esclusivamente nella somministrazione, inevitabile per il paziente, di psicofarmaci, il cui unico scopo alla fine è quello di intontirlo, rubandogli un po’ di vitalità e di iniziativa personale. I colloqui con l’utenza venivano invece somministrati a gocce oppure, in modo più abbondante, a pagamento. Ma poi, diciamolo pure, i dottori come persone sarebbero abbastanza bravi se non fosse per il fatto che sono degli psichiatri:servi del sistema dunque.

   I sintomi sui quali basano la loro diagnosi vengono sistematicamente occultati con la cura farmacologica. Non si cerca fino in fondo di capire il perché di quelle manifestazioni ma la tendenza dominante nei reparti psichiatrici è quella di eliminare la malattia azzerando la sintomatologia.

    L’essere umano con la sua dignità, il suo modo d’essere e di pensare vengono messi, nella migliore delle ipotesi, in secondo piano. Certo è che la struttura del reparto, così come si presentava, non era il posto più adatto per un portatore di disagio mentale, insomma non era un inno alla vita trovarsi lì, fra quelle mura, insieme ad altre persone che espiavano le loro pene.

    Sicuramente la società è molto sbrigativa nel giudicare chi almeno all’apparenza sembra essere così diverso dagli standard normali. In psichiatria avviene lo stesso però in maniera più distaccata e  adottando un lessico che faccia apparire più scientifico l’approccio considerato curativo.

    Ammesso che le cure servono a far guarire il malato, gli errori, che si possono inevitabilmente commettere per una diagnosi sbagliata ai danni di questi, chi li paga? Nel cosiddetto fenomeno di malasanità un paziente psichiatrico non può in nessun modo avvalersi dei suoi diritti. Chi lo potrebbe in effetti tutelare per gli errori commessi non essendo questi così chiaramente individuabili? I medici non di certo. La mente, essendo oltretutto un entità astratta, è difficilmente afferrabile e definibile sul piano scientifico, contrariamente a quanto fanno invece gli psichiatri che però ovviamente si avvalgono di questo fatto nascondendovi così la propria limitatezza ed ignoranza. La diagnosi in fondo è solo un giudizio di valore (un opinione dunque) che si dà al malato e alla malattia in base a presupposti giudizi di valore acquisiti.

    Se tutto ciò viene spacciato come scienza quale opinione può contrastarla? Chi può competere con questo modo di giudicare e catalogare le persone utenti-usate? I malati non sono certamente quelli più indicati e attendibili. L’ignoranza delle persone del nucleo familiare non può fare naturalmente nulla contro lo strapotere del sapere scientifico così ben solidamente strutturato e acquisito. E, ciliegina sulla torta, non esiste nessun sindacato che difenda i diritti dei portatori di disagio mentale. Paradossalmente chi potrebbe veramente giudicare, a tutti gli effetti il sistema psichiatrico, è proprio il malato stesso che ovviamente non ha dalla sua parte né il sapere scientifico dei sapienti dottori che si presume sappiano; né il sistema interno psichiatrico che lo reclude e lo emargina; né la famiglia che non sa o forse non ne vuole sapere; né il sistema esterno a cui presumibilmente da fastidio in un modo o nell’altro. E oltretutto non ha nemmeno più un briciolo di volontà e di intenzionalità poiché ciò è considerato comodamente parte integrante della mallattia.

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